Per secoli i pozzi sono stati un elemento essenziale della vita quotidiana dei veneziani. La loro abbondanza (si calcola che nei vari secoli abbiano superato il numero di seimila) si spiega con l’impellente necessità di approvvigionamento e di raccolta di acqua dolce. Come notava infatti il poeta Marin Sanudo (1466-1536) «Venezia è in acqua ma senza acqua».
Le uniche aree dove erano presenti vene di acqua dolce erano i lidi. È molto probabile che grazie alla scoperta di questi pozzi naturali, formatisi con l’accumularsi dell’acqua piovana filtrata e depurata dalla sabbia, si sia sviluppata l’ingegneria costruttiva delle cisterne cittadine.
L’acqua piovana veniva convogliata dai tetti o da apposite piattaforme ingegnosamente costruite, nei pozzi profondi scavati nel terreno; filtrata da strati di sabbia si manteneva qui pura e fresca. Un manto d'argilla, a imbuto, circondava il pozzo rendendolo impermeabile alle infiltrazioni d'acqua salmastra.
La corretta costruzione dei pozzi era molto importante ed era affidata ad una ristretta confraternita detta dei Pozzeri, affiliata all’Arte dei Muratori. Gli iscritti si tramandavano la professione di padre in figlio e avevano l’obbligo di lavorare esclusivamente per i pozzi “all’uso di Venezia”.
(Giovanni Grevembroch Acquaroli, 1753 Disegno a penna su carta con colorazioni ad acquerello)
L’acqua piovana non era però spesso sufficiente a soddisfare la richiesta della città. Nacque quindi una nuova figura, quella degli acquaroli. Il loro compito era quello di riempire i pozzi pubblici di Venezia con acqua proveniente dal fiume Brenta.
Tra il 1609 e il 1611 venne costruito un piccolo canale lungo 13,5 km e largo un metro, detto La Seriola, che incanalava una piccola parte dell’acqua del Brenta portandola fino a Maranzani.
Nel punto in cui la Seriola deviava dal Brenta, c'era un'iscrizione marmorea: HINC POTUS URBIS (di qui l'acqua potabile per la città). A Maranzani gli acquaroli prendevano l’acqua e la trasportavano fino a Venezia dove, per mezzo di canalette di legno, la facevano scorrere dalle loro imbarcazioni fino ai pozzi.
Gli acquaroli erano divisi in corporazioni ma in città ne esistevano però anche di abusivi. Essi conducevano barche chiamate “forastiere” e potevano vendere acqua soltanto al minuto. Queste imbarcazioni venivano anche dette “scoazzere” perchè erano adibite al trasporto dei rifiuti solidi urbani e per questo era d’obbligo caricare l'acqua in appositi tini. Questo lavoro, ritenuto illegale, era però in pratica ben tollerato in cambio del pagamento di un contributo di 20 soldi l'anno alla corporazione.
Data la necessità che i pozzi fossero sempre in ordine, soprattutto dal punto di vista sanitario, la Repubblica aveva assicurato un'assidua sorveglianza: oltre ai fanti dei Provveditori alle Acque, Sanità e Comun, dovevano esplicare i controlli anche i parroci e i capicontrada ai quali era affidata la custodia delle chiavi delle cisterne, che venivano aperte due volte il giorno: mattino e sera, al suono della «campana dei pozzi».
Molti pozzi si trovavano anche nei chiostri delle chiese, ad uso delle comunità religiose che in alcuni casi erano obbligate dalla Repubblica a estendere in determinate ore del giorno l’uso del pozzo anche alla popolazione.
La parte sotterranea dei pozzi è sovrastata dalle così dette "Vere da pozzo".
Questo è un termine tipicamente veneziano e con esso si definisce la costruzione lapidea sovrapposta alla canna del pozzo a protezione della sua apertura. All’inizio fu un elemento semplicissimo con funzioni di sola sicurezza e, col passare del tempo, divenne un ricco e pittoresco ornamento di piazze e cortili.
Per quanto riguarda i materiali utilizzati per la loro costruzione, i costruttori dei primi periodi si servirono abbondantemente di materiali tratti dalle rovine di Altino, Jesolo e Concordia. Capitelli e fusti di colonne venivano riutilizzati e le vere da pozzo più antiche non sono altro che sezioni di capitelli, colonne o urne funerarie.
In epoche successive la così detta Pietra d’Istria ebbe il predominio indiscusso come materiale di costruzione a causa della sua eccezionale resistenza alla salsedine e soprattutto alla facilità di trasporto via mare fino a Venezia. Erano però molto diffusi per le loro diversità cromatiche, i calcari veronesi.
La vera, che in termine architettonico si dice puteale, nel corso dei secoli venne acquistando forme d'arte sempre più elaborate e complesse. Variatissima e fantasiosa la decorazione a rilievo: piante, festoni di frutta e di fiori, fogliami arricciati, putti, angeli reggiscudo, pavoni, teste leonine, motivi allegorici, iscrizioni morali.
I cortili interni dei palazzi erano spesso dotati di un pozzo privato. Era però titolo di benemerenza che le famiglie benestanti costruissero un pozzo pubblico per i cittadini. Su alcune vere da pozzo si trovano così stemmi nobiliari e scritte commemorative in segno di riconoscenza e a ricordo della famiglia patrizia che le commissionò.
(La sezione di un "pozzo" di Venezia Disegno tratto da ArcheoVenezia - dic. 1995 - trimestrale dell'Archeoclub d'Italia sede di Venezia)
Sono solamente due le vere da pozzo firmate: le vere in bronzo del cortile di palazzo Ducale datate la metà del XVI secolo, una di Alfonso Alberghetti, l’altra di Nicolò de’ Conti. A queste si può aggiungere quella della Cà d’Oro realizzata nel 1427 da un allora ventenne Bartolomeo Bon.
Per tutte le altre si possono fare solamente delle supposizioni.
In realtà la vera da pozzo veneziana è molto spesso un prodotto seriale, confezionato sulla base di alcuni prototipi con varianti stilistiche e artistiche più o meno significative. Conferme a questa tesi vengono da fonti documentarie secondo cui la Repubblica Veneta nel 1424 ordinò la costruzione simultanea di trenta pozzi in piazze e cortili pubblici, nonché di altri cinquantacinque nel 1768.
Purtroppo, già verso la metà dell’Ottocento vennero interrati moltissimi pozzi e le vere furono vendute a stranieri, antiquari, collezionisti privati e musei.
Nel 1882-84 venne costruito l’acquedotto pubblico e vennero installate le tubazioni. I pozzi iniziarono così a cadere in disuso e le vere, da allora, furono viste come semplice elemento ornamentale e bene artistico.
In alcune delle vere rimaste si può ancora leggere: "Commodiati Publicae Nec Non Urbis Ornamento", cioè a servizio del popolo e nel tempo stesso ornamento della città.
I pozzi veneziani sono, attualmente, circa 600 e non sono in uso.