Accanto alla Venezia dei ristoranti con “menù turistico” a prezzo fisso, dei negozi dozzinali di maschere o di vetri pseudo muranesi, c’è una Venezia che dimostra la sua vitalità attraverso le sue tradizioni e la creatività di alcuni dei suoi abitanti, smentendo quanti la vedono come una città ormai in declino e in balìa del turismo di massa. 

Esistono infatti delle realtà artigianali che sconfinano (se davvero esiste un confine) nel campo artistico, alcune delle quali, data la lunga tradizione, sono diventate famose e richiestissime a livello internazionale: ad esempio i tessuti Bevilacqua, lavorati su telai originali del ‘700, che riproducono fedelmente i broccati del tempo della Serenissima  e che rivestono le pareti dello Studio Ovale alla Casa Bianca (e recentemente sono stati utilizzati per alcuni capi nelle collezioni di Dolce & Gabbana); oppure alle visionarie maschere in cartapesta di Mondonovo, utilizzate per la scena della festa segreta nell’ultimo film di Stanley Kubrik, Eyes Wide Shut.

Ed esistono anche realtà meno conosciute, ma affascinanti, molte delle quali nate da pochi anni e portate avanti da giovani artigiani-artisti, a testimonianza di un mondo che, nonostante le trasformazioni in atto in campo sociale e produttivo, non ha nessuna intenzione di sparire e anzi si sta ritagliando uno spazio sempre più importante tra coloro che rifiutano la banalità di oggetti e abiti  fatti in serie e vanno alla ricerca di quell’”aura”, per citare Benjamin, che nell’era della “riproducibilità tecnica” solo gli oggetti artigianali ancora possiedono.

 

La nostra ricognizione comincia in zona S. Polo, e precisamente in Campo dei Frari: qui, proprio di fronte alla facciata principale della chiesa gotica di S.Maria dei Frari, una delle uniche due a Venezia realizzate in questo stile (l’altra è SS. Giovanni e Paolo), si trova il negozio-laboratorio di Laura Pinato, la “Zanze Venexiana”; la Zanze è un personaggio popolare veneziano, una specie di vecchia megera che va in giro a malignare, e in dialetto è diventato un modo di dire. Laura realizza maschere in cartapesta e oggetti in legno (scatole, segnalibri…) che dipinge ispirandosi a varie fonti iconografiche: dai tarocchi trecenteschi dei Visconti, alle miniature medievali, dalle icone russe alle antiche carte geografiche, fino ai personaggi grotteschi di Bosch, che sono serviti da modello per alcune maschere (anche se poi ci sono anche le maschere più tradizionali, quelle della Commedia  dell’Arte).
Spesso si tratta di riproduzioni fedeli, ma alle volte l’originale è solo fonte d’ispirazione da cui partire per una rilettura personale, come nel caso del mappamondo realizzato a partire da un mappa bidimensionale, una delle prime raffigurazioni della terra, che Laura ha arricchito con sue invenzioni e elementi presi da raffigurazioni più tarde.
La doratura degli oggetti in legno è realizzata con una foglia metallica chiamata “foglia d’orone” che viene poi brunita utilizzando il bitume per dare un effetto “antico”; su questa base viene realizzato il disegno con colori a tempera; sul tutto si stende poi uno strato di lacca per lucidare.

 

Proseguendo verso campo S. Polo si incontrano, a poca distanza uno dall’altro, l’Atelier Pietro Longhi e il laboratorio di Alessandro Salvadori.
L’Atelier, che prende il nome dal pittore veneziano che nel ‘700 ritrasse la vita quotidiana della città e dei suoi abitanti (le sue opere sono oggi conservate al Museo Correr), è stato creato nel ’94 da Francesco Briggi e da sua moglie Anna Maria. Fin da piccolo Francesco era un appassionato di travestimenti ed ha cominciato col confezionare costumi di Carnevale per sé e per gli amici; poi, assieme alla moglie, che condivideva questa passione,  ha approfondito lo studio della storia della moda e del tessuto.
Il risultato sono abiti splendidi, curati nei minimi dettagli, realizzati con tessuti preziosi, in cui è evidente la ricerca storica non solo sul modello,  ma anche sui procedimenti di realizzazione sartoriale.
Entrando nel loro atelier si viene proiettati in una strana dimensione temporale in cui le epoche si mescolano fra loro: ci sono abiti da Doge, da dama medievale, da  gentiluomo del settecento e da cortigiana rinascimentale; non mancano poi armature e uniformi militari di varie epoche (alcune, prussiane, napoleoniche e piemontesi, sono state confezionate per una ricostruzione storica della battaglia di Marengo).
Accanto agli abiti, nell’atelier si possono poi trovare anche scarpe, cappelli, guanti, parrucche e accessori vari, tutti realizzati artigianalmente.
I Briggi collaborano anche con alcuni teatri lirici italiani ed europei (recentemente hanno realizzato i costumi per La Traviata, andata in scena al Teatro dell’Opera di Corfù, in Grecia); hanno inoltre realizzato costumi per l’ultimo film di Squiteri, un remake de “La Venexiana”, con Claudia Cardinale, e, nel ’99, per una produzione americana intitolata “Venice Project”, in cui hanno vestito, tra gli altri, Dennis Hopper e Anna Galiena. Un’altra loro creazione, un paio di ali nere da “angelo caduto”, è stata utilizzata per un servizio fotografico pubblicato su Vogue Gioielli.

 

Poco più avanti, sul lato opposto, incontriamo il negozio-laboratorio di Alessandro Salvadori: le sue lampade, veri e propri oggetti d’arredamento, si ispirano alle forme delicate del mondo naturale (fiori, conchiglie, pesci, meduse), oppure si rifanno alle forme coniche delle lampade Fortuny. Nate quasi per gioco, assemblando pezzi di varia origine, come regali per gli amici, le creazioni di Alessandro sono andate sempre più evolvendosi: oggi la struttura, leggera e sinuosa, è in ottone, mentre il paralume è realizzato incollando uno sull’altro vari strati di carta giapponese, poi dipinta  a mano e talvolta “bucherellata” per giocare con la luce; spesso sono poi impreziosite con piccole decorazioni di perle di Murano.
Oltre alle lampade, Alessandro crea anche scatole e cornici in legno, in cui fa un largo utilizzo della doratura, secondo la tradizione veneziana degli “indorador lacador”(indoratori laccatori).
Tra le varie fonti di ispirazione, sempre però reinterpretate in modo assolutamente originale, oltre a Fortuny  c’è Klimt (soprattutto per l’uso dell’oro e delle decorazioni geometriche), il liberty, Gaudì (i colori, le forme curve).
Un piccolo archivio fotografico documenta la destinazione a cui sono giunte le sue creazioni, una volta acquistate dai clienti: si va da Madrid a Londra, da Hong Kong a New York e Parigi, passando naturalmente per molte città italiane. A Venezia le sue lampade illuminano il vicino Caffè Toppo e il Café Noir, un piccolo bar molto frequentato dagli studenti, che si trova vicino a Campo S. Margherita.

 

E proprio tra campo S.Margherita, uno dei luoghi più vivaci della città (soprattutto d’estate, grazie all’alta concentrazione di caffè e ristoranti con tavolini all’aperto) e il vicino campo S.Barnaba, si trova il negozio-atelier di Gualti, al secolo Gualtiero Salbego, “sperimentatore materico”, come lui stesso si definisce.
Dopo una formazione come ceramista, durante la quale non ha mai smesso di creare oggetti vari utilizzando anche legno e metalli, nel ’90 scopre un materiale utilizzato normalmente per uso industriale: si tratta di una resina sintetica, duttile e quindi plasmabile, che ha la trasparenza e la leggerezza del vetro ma non la sua fragilità.
Grazie a questo materiale, originariamente povero ma reso prezioso dalla lavorazione e dalla combinazione con dettagli di vetro e cristallo, poi dipinti a mano, Gualti inizia a creare questi monili, quasi piccole sculture che sembrano però dotate di vita (lui infatti le chiama “creature”): spille come foglie o fiori dai lunghi stami, collier come una cascata di filamenti o radici, orecchini come vibratili anemoni di mare, che a uno sguardo ravvicinato rivelano un microcosmo ricco di dettagli: il “cuore” del gioiello è quasi sempre in vetro o cristallo, che uno strato d’argento sottostante rende luminoso e cangiante come un occhio. 
Tutto in questo spazio candido e accogliente sembra essere in continuo divenire: perfino le pareti di mattoni a vista che il tempo lentamente sgretola, o le travi di legno sul soffitto parlano dell’incessante mutare del mondo naturale.
Oltre ai monili, recentemente Gualti ha iniziato a produrre anche alcuni accessori, sempre caratterizzati dal suo inconfondibile stile: sciarpe in seta in cui la stoffa rimane quasi imprigionata dai filamenti di resina e scarpe da sera in crepe o raso di seta realizzate artigianalmente su suo disegno, spesso impreziosite da un piccolo gioiello.

 

Tornando invece leggermente indietro, vicino a campo S.Tomà, si incontra un negozio che risveglia la mai sopita nostalgia dell’infanzia: il Baule blu di Claudia Grano e Silvia Brinis.
Varcando la soglia si viene trasportati nella soffitta della nonna tra bauli straripanti di giocattoli e vecchie macchine da cucire a manovella (perfettamente funzionanti e infatti utilizzate regolarmente).
Anni fa Claudia e Silvia, che avevano un negozio di antiquariato, frequentando i mercatini hanno iniziato a collezionare vecchi giocattoli: pian piano, hanno iniziato ad aggiustare e restaurare quelli rotti; poi, apprendendo con l’osservazione come erano fatti, sono passate a costruire i loro orsi, utilizzando materiali di alta qualità, come la lana mohair, e i procedimenti di una volta. Quattro anni fa hanno definitivamente abbandonato la loro attività precedente per dedicarsi completamente ai giocattoli.
Sono così entrate a far parte del variegato mondo del collezionismo di giocattoli, che è più complesso di quel che si potrebbe credere; grosso modo si suddivide in vari settori: chi colleziona animali di pezza o di peluche, chi colleziona bambole, chi colleziona giocattoli di latta… all’interno di queste suddivisioni generali però c’è chi si specializza in una ditta (ad esempio per quanto riguarda gli orsacchiotti una delle più famose è la tedesca Steiff), in un periodo (es gli anni ’20), o in un particolare sottotipo (ad esempio i trenini oppure le Barbie). Oltre a libri di storia del giocattolo,  esistono poi riviste specializzate, soprattutto inglesi come “Teddy bear” o “Doll” (che ha anche una versione online: www.dollmagazine.com): questo tipo di collezionismo infatti, specialmente per quanto riguarda gli orsacchiotti, è molto più diffuso all’estero, soprattutto in Gran Bretagna, Stati Uniti, Austria e Germania, Paesi in cui Silvia e Claudia hanno molti estimatori e clienti.
I loro orsi infatti sono molto apprezzati e hanno partecipato a varie fiere e concorsi in tutto il mondo, vincendo numerosi premi; uno di loro poi ha accompagnato come mascotte una spedizione scientifica italiana in Antartide, della quale esiste un nutrita documentazione fotografica!

 

Cambiando zona, ovvero attraversando il ponte di Rialto e dirigendosi verso Piazza S. Marco, in Calle dei Fuseri si trova la bottega (così i veneziani chiamano i negozi) di Rolando Segalin, più che calzolaio un artista della calzatura: le sue scarpe, fatte interamente a mano utilizzando vecchie forme di legno (che lui tuttavia modifica per creare nuovi modelli) sono delle vere e proprie opere d’arte e infatti sono molto apprezzate da pittori e artisti.
Rolando Segalin ha studiato a fondo l’evoluzione della calzatura nel tempo: accanto a modelli classici realizza scarpe che si ispirano ad epoche remote (come la poulaine, che usavano i dignitari francesi nel 1300, o le scarpe settecentesche col tacco a rocchetto e la fibbia); ogni tanto poi si diverte a creare scarpe bizzarre, come quelle da Mefistofele, con la lunga punta ricurva, o la scarpa-gondola, o ancora la scarpa-piede, ispirata a un quadro di Magritte, che è stata acquistata dal Bata Shoe Museum di Toronto assieme alle scarpe-trampolo, riproduzione di quelle con la zeppa altissima, fino a un metro, che usavano le prostitute veneziane nel ‘500 per essere viste da lontano quando si affacciavano ai balconi a seno scoperto (esiste ancora un ponte chiamato “ponte delle tette” proprio per questo motivo!).
Tra i numerosi clienti che hanno visitato la sua bottega e ne sono usciti con una sua creazione, molti attori di passaggio a Venezia per la Mostra del Cinema: tra questi Richard Chamberlain (l’interprete di “Uccelli di rovo”) e, più recentemente, Tom Hanks.
Gli artigiani come Segalin sono ormai pochissimi, ma il suo sapere continua a venire trasmesso; la cosa curiosa è che questo mestiere, tradizionalmente maschile, ora viene appreso dalle donne: sono già tre finora le apprendiste che hanno deciso di imparare da lui l’arte di fabbricare scarpe eleganti e originali allo stesso tempo.

 

Una di loro è Giovanna Zanella, che nella vetrina del suo negozio, vicino a Campo S.Lio, espone alcune delle sue creazioni, frutto degli insegnamenti di quello che lei chiama il Maestro.
Giovanna si è però emancipata dallo stile di Segalin per perseguire una sua strada completamente originale, in sintonia con gli abiti e gli accessori che costituiscono la parte predominante della sua produzione.
Le sue creazioni sono infatti espressione di una ricerca originale e fuori dagli schemi della moda, e tuttavia attualissima: volendo trovare dei punti di contatto con qualche nome noto, si potrebbero citare gli stilisti Yohij Yamamoto e soprattutto Issey Mijake, con cui Giovanna (che però ci tiene a definirsi artigiana e non stilista) ha in comune l’uso di forme semplici, quasi geometriche, ma al tempo stesso morbide, e dei colori vivaci.
Nel suo negozio, in cui si trova anche il piccolo laboratorio, accanto a abiti, mantelle e gonne (rigorosamente lunghe!), si trovano borse, sciarpe, monili e cappelli dalle forme più strane, ognuno dei quali è assolutamente unico. Accanto alla cura nella manifattura, le creazioni di Giovanna testimoniano una continua ricerca anche nel campo dei materiali utilizzati, sempre insoliti e sorprendenti, e sempre perfettamente in sintonia con le forme del modello. Recentemente, avvalendosi della collaborazione di una giovane diplomata dell’Accademia di Belle Arti, ha iniziato a creare degli abiti-quadro, decorati da pennellate di colore che li rendono uno diverso dall’altro e irripetibili.

 

Per concludere questa inevitabilmente parziale rassegna del panorama artistico – artigianale veneziano, vorrei riportare il “concetto del mestiere” secondo Giovanna Zanella, che a mio parere, può essere applicato a ciascuno dei protagonisti di questo breve viaggio:

Un mestiere è qualche cosa che forse abbiamo già dentro di noi e che bisogna solo sviluppare. E’ un disegno misterioso, un’alchimia che mettiamo insieme giorno dopo giorno. Pensiamo di imparare qualche cosa che evidentemente sappiamo già. Dobbiamo solo elaborare in profondità la nostra conoscenza per far nascere dalla materia l’opera o l’oggetto che deve identificarsi con la nostra anima. Solo allora dovremo essere contenti. Vedere la nostra creazione ed esporla nella vetrina della nostra vita.
Il tempo che scorre e che contemporaneamente ci consuma ci darà almeno la gioia di non aver sprecato tanti giorni e la tranquillità interiore sarà la misura di quello che siamo o saremo. Spesso non c’è risposta. Sono sensazioni interiori difficili anche da esternare, ma saremo in simbiosi con noi stessi
”.

 

 

 

ph Andrea Campanini 

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